Recensione a cura di Gianni De Vincenzi
Le trame in cui è intessuto il discorso musicale di Paolo Dinuzzi lasciano intravedere una semantica sfuggente, liquida. La sua musica pur inserendosi in una concezione strutturata della composizione e dei momenti improvvisativi possiede la stessa capacità evocativa della musica a programma di ricollegarsi a delle immagini riconoscibili, ma leggermente fuori fuoco. Una qualità quest’ultima che permette all’ascoltatore di comprendere a tratti la mappa dei riferimenti musicali del quartetto e di perderne le coordinate un attimo dopo.
Le sue armonie fanno apertamente riferimento ad un universo post-shorteriano con la sua combinazione di armonia tonale e modale. Sul versante ritmico le sue evoluzioni metriche si inseriscono in quelle che sono le novità che imperversano da un trentennio a questa parte nel Jazz.
Su questo fondale, tutto sommato familiare per gli appassionati del Jazz contemporaneo, spiccano le scelte melodiche. Sono infatti i temi a sancire la forte libertà d’azione del compositore, capace di un’immediatezza che non cede mai il passo al semplicismo e al citazionismo, i tracciati melodici definiti da Dinuzzi ci stupiscono per fluidità e capacità evocativa.
Siamo chiaramente immersi in un Jazz contemporaneo memore del passato glorioso, ma solo nell’ambientazione. La forte volontà di Dinuzzi di traslare in musica un pensiero quanto più autentico possibile è evidente nella scelta di rappresentare in ogni brano le sue connessioni con particolari esperienze autobiografiche.
Particolarmente interessante “Quattro” con il suo andamento frammentario ma al contempo pulsante su cui si apprezza il solo del chitarrista Giancarlo Pirro con la sua obliquità narrativa e la capacità di far respirare lo spazio sonoro valorizzando con i suoi silenzi il lavoro della sezione ritmica. Diametralmente opposto l’episodio solistico del sassofonista Sabino Fino che energicamente si muove in un linguaggio libero da condizionamenti armonici. Notevole l’interplay e la frammentazione della pulsazione di Riccardo Gambatesa, batterista dalle ottime scelte interpretative. Di forte impatto il solo del leader su “I’m back” con la sua solida costruzione improvvisativa dalle implicite qualità vocali e il suo suono rotondo e profondo.
Meraviglioso il tema di “Skin”, condotto magistralmente da Sabino Fino al sax tenore, che regala un solo dall’arco narrativo ampio e trascina nel mood ternario di un brano che ben rappresenta la dimensione del teatro danza, tanto caro all’autore.
Possiamo annoverare a pieno titolo “Invisible” tra le piacevoli sorprese di questo 2023 e affermare che Paolo Dinuzzi è un musicista maturo in grado di esprimere le sue qualità musicali e di bandleader traducendole, attraverso la condivisione degli spazi, in un pensiero compiuto.